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Non saprei neanche da dove iniziare.

Forse dalla “cantilena fastidiosa” di quell'”insopportabile” della Boldrini ché, si sa, l’apparenza è tutto; in politica mica contano i fatti o le idee da portare avanti. In politica il pacchetto è essenziale, un bel involucro conta più di mille strade asfaltate, più di mille posti all’asilo o più di mille ticket sanitari. E se a dirlo è un attore la cui cadenza romana è un marchio di fabbrica bisogna credergli.

O forse dallo spauracchio di Stalin e del KGB e della sinistra in mano ai comunisti che mangiano bambini mentre cantano l’Internazionale tra un bicchiere di vodka e l’altro.

O forse da quel povero diavolo di Berlusconi che ha fatto tanto di quel bene al Paese, che ha creato tanti di quei posti di lavoro e che, di sicuro, non meritava di essere stroncato per quel vizietto dei festini e poi, parliamoci chiaramente, è stato stroncato da quei magistrati rossi che avrebbero fatto firme false pur di partecipare alle sue feste a base di prostitute al limite della maggiore età, un gruppo di magistrati gelosi di un uomo di settant’anni che ancora riesce a tenere il passo degli appetiti sessuali delle ventenni con le quali condivideva le serate. E non nominiamo nemmeno gli abusi di potere, le corruzioni, le truffe da lui orchestrate e per le quali è stato condannato ché tutto si riduce a un “È un uomo a cui piace la figa, embè?”.

O forse dalla classe con la quale bolla la Palombelli come una dei tanti “sinistroidi coi milioni in banca”, una “radical chic” che fa “tutte ‘ste storie sulle coppie gay”, anche se, per quanto mi sforzi, non riesco proprio a trovare un nesso tra il non essere stato riconfermato per un lavoro in televisione e le coppie gay, non parliamo poi del “genitore 1 de qua e il genitore 2 de là”, si vede che al Bracco sono sfuggite le discussioni sull’argomento a livello mondiale, ma, di nuovo, quale sarebbe il legame con il cast di “Forum”? O forse sono solo due righe che nascondono un mondo di pregiudizi verso quella sinistra guardata con disprezzo, composta per lo più da cosiddetti intellettuali che non hanno mai lavorato un giorno in vita loro, che non sanno cosa significa sporcarsi le mani con la terra, che si nascondono dietro ai libri e alle aule universitarie, che pretendono di spiegarci come stare al mondo e che, soprattutto, fanno della distruzione dei valori della famiglia tradizionale (padre, madre, figli, puttana minorenne al seguito e tutti a messa la domenica mattina) (ciao, Ale) il punto di forza dei loro discorsi. È a questi sinistroidi che bisogna ringraziare se in Italia esiste una legge contro l’omofobia o se i gay possono sposarsi o adottare un bambino.

O forse dall’ironia non voluta con la quale passa dal dare dei “Ro-si-co-ni” ai detrattori di San Silvio da Arcore al rosicamento per non essere più a Canale 5 tutte le mattine (per colpa degli stessi detrattori di SSdA?).

O forse da quel “Via dall’Euro” che adesso va tanto di moda – non a caso parla di Grillo e di Salvini che sono sulla stessa linea di pensiero – e che ci ricorda che viviamo nel Paese delle responsabilità. Degli altri. Perché è arrivata la crisi in Italia? Perché quella culona della Merkel ha sfruttato l’Europa per fare gli interessi della Germania e chi ci ha rimesso sono stati i pesci piccoli e puri come l’Italia. I ristoranti erano sempre pieni, prima dell’euro.

Forse partirei proprio da qui, dal concetto di “rivergination” che è anche quello più comprensibile.

I politici sono brutti e cattivi, hanno fatto a pezzi l’Italia, hanno “affamato il popolo”, “‘sti zozzoni”. Di nuovo rientrano in campo le responsabilità degli altri, dirette e indirette. Sono state le scelte dei politici che hanno portato alla miseria attuale ma, se un politico è arrivato dove è arrivato, fino a prova contraria è perché stato votato da qualcuno e se ti ritrovi alla soglia dei cinquant’anni è facile pensare che un paio di volte abbia votato anche tu. Ripeto, questa è la parte più comprensibile di tutta l’intervista. Puntare il dito contro la classe dirigente in toto è una delle cose più semplici e più pigre allo stesso tempo. Dire “tanto sono tutti uguali” è un sinonimo di ignoranza e di malafede. È un modo per autoassolversi, per dire che non c’è bisogno di informarsi su un tale partito o su un tale politico ché tanto sono feccia a priori. Non c’è neanche bisogno di stare a sentire cosa hanno da dire perché si dà per scontato che sia finalizzato all’interesse personale. E allora, se gli intellettualoidi sono confinati dietro ai libri a occuparsi degli interessi delle coppie gay e se i politici di professione si occupano di preservare la casta, gli unici che possono fare gli interessi degli uomini della strada sono proprio loro, gli uomini della strada. E a questo punto la mancanza di preparazione, la mancanza di studio, di militanza in un partito diventano un punto di forza, un modo per assicurare che, no, loro non sono “casta”, sono cittadini che si preoccupano di altri cittadini.

E passano in secondo piano le competenze di Bracconeri – cosa ne può sapere Bracconeri di economia e quali ripercussioni avrebbe davvero un’eventuale uscita dell’Italia dall’euro? – o il fatto che si sia avvicinato a un partito “tradizionale” la cui leader è stata Ministro in un governo Berlusconi per ben tre anni – Meloni non è anch’essa responsabile della crisi sulla base del ragionamento di Bracconeri che vede gli zozzoni colpevoli di aver affamato il popolo? o ci sta dicendo che Meloni è un po’ meno zozzona degli altri? e sulla base di cosa, di grazia? – e che il Bracco intende avvicinarsi a un altro partito, la Lega, che ha governato sempre con Berlusconi in anni cruciali per la crisi nazionale. Quello che conta è solo l’apparenza di nuovo e di pulito, talmente pulito da non aver nessuna esperienza.

Ma forse è solo una bolla d’aria e, quando Bracconeri deciderà di sciogliere la riserva, scopriremo che non aveva mai voluto candidarsi e soprattutto mai mischiarsi con questi politicanti.

Toys

Quando si parla, con un infelice scelta linguistica, di quote rosa nei listini elettorali o nelle aziende mi tornano in mente quelle targhette che già sembravano anacronistiche ai miei occhi da bambino, quelle con la scritta “Vietato sputare” sugli autobus.

Non ho mai visto nessuno prendere una multa perché aveva sputato sull’autobus e una legge che lo vietava mi sembrava superflua, un modo paternalistico per regolare qualcosa che doveva essere dettato dal buonsenso: non si espelle la propria saliva su un mezzo di trasporto pubblico. Semplicemente non si fa. Immaginavo di vedere gli autobus ricoperti da altre mille targhette. “Vietato defecare”. “Vietato tagliarsi i capelli”. “Vietato tagliarsi le unghie”. Perché doveva esistere un cartello (e una legge) che impedisse lo sputo condiviso e non una legge che si occupasse di attività altrettanto riprovevoli da non fare sugli autobus? Evidentemente doveva esserci stato un periodo in cui gli utenti degli autobus ritenessero di avere la prerogativa di poter sputare quando e dove lo desiderassero. Evidentemente doveva essere stato necessario introdurre una legge per far cadere questa abitudine.

In un mondo ideale, non ci sarebbe bisogno di quote rosa.
In un mondo ideale, a parità di mansione, non ci sarebbero differenze sulla busta paga di un uomo e su quella di una donna.
In un mondo ideale, le possibilità di far carriera sarebbero le stesse a prescindere dal genere dei lavoratori.
In un mondo ideale, non verrebbe richiesto alle donne di firmare le dimissioni in bianco per poi rassegnarle una volta incinte.
In un mondo ideale, rimanere incinta non dovrebbe essere d’ostacolo alla carriera, e viceversa.
In un mondo ideale, le mansioni dovrebbero essere assegnate a coloro che hanno più competenze, senza guardare al loro sesso.
In un mondo ideale, una donna che commette un errore dovrebbe essere giudicata una cretina sulla base dell’errore commesso, non ci dovrebbe essere spazio per commenti sul suo vestiario, sul suo trucco, sul suo taglio di capelli, sui suoi tacchi, su quale e quanta parte del suo corpo decide di esporre, sulle sue vere o presunte preferenze sessuali.
In un mondo ideale, non ci sarebbe bisogno delle quota rosa perché basterebbe il buonsenso.

È quello che sta accadendo oggi?

No.

Oggi che abbiamo la possibilità di autoregolamentarci, di decidere da soli a chi affidare il comando, scegliamo di assegnare il potere agli uomini.
Oggi scegliamo di affidare l’80% degli incarichi istituzionali, nazionali o locali, a chi è nato con un pene.
Oggi l’autoregolamentazione passa per un 50/50 nelle poltrone dei Ministeri del governo Renzi, ma su 44 Sottosegretari le donne sono 9.
Oggi l’autoregolamentazione passa per l’assenza di un Ministero per le Pari Opportunità.

Un po’ perché si è sempre fatto così.
Un po’ perché è considerato “naturale” che le portatrici di utero abbiano voglia di sfruttarlo e di farsi una famiglia e, se devono stare a casa dal lavoro per almeno nove mesi, tanto vale non perdere tempo fin da subito e non assegnare loro posti di dirigenza.
Un po’ perché a quale uomo farebbe piacere essere comandato da una donna? Già lo fanno a casa!

Introdurre le quote rosa significa questo, significa dare una chance alle donne, per legge. Significa ripartire da zero. Significa dire, ci sono 50 uomini e 50 donne che lavorano a questo progetto, ora non ci sono più scuse, ora va avanti chi è capace di dare il contributo più grande. È una forma di paternalismo da parte dello stato? Sì, in parte è anche quello, ma è anche un modo per prendere coscienza di una situazione discriminatoria che non può più essere tollerata e che, se lavoreremo bene e se saremo fortunati, i nostri figli troveranno anacronistica.

L’immagine è tratta da questo video.

Ma riconfermare Lorenzin e lasciare a casa Bonino non mi sono sembrate due mosse molto intelligenti. Per non parlare del fatto che ci siano otto Ministre su sedici, ma non ci sia un Ministero per le Pari Opportunità. E neanche quello per l’Integrazione. Considerando che Renzi intende governare fino al 2018, si vede che non considera le pari opportunità e l’integrazione dei temi di cui occuparsi. Spero di essere smentito nei prossimi mesi.

SIGLA:

Indeciso se scrivere o meno della serata d’apertura di Sanremo, stavo pensando che il momento più riuscito sono stati i primi venti minuti. Quelli in cui due operai salgono su un traliccio del teatro e minacciano di buttarsi se Fazio non leggerà la loro lettera. È a quel punto che il conduttore decide di non trasformare quel momento in tv del dolore. Non si mette ad accarezzare i due, a dir loro «Va bene, ma adesso scendete prima di farvi del male», non si mette a fare l’eroe della situazione, ad arrampicarsi verso i due disperati, a mettere in primo piano la loro sofferenza. È a quel punto che il conduttore decide di non essere la vittima della situazione. Non si lascia trascinare dagli eventi, non lascia che la protesta di due operai diventi protagonista – certo, non più di quanto già non sia -, mette in dubbio la loro storia («Io non ho modo di verificarla»), si limita ad una parafrasi della lettera e la legge per sommi capi solo dopo l’esibizione di Ligabue. Non solo, ma rivolge a quei due operai delle parole che sembrano essere state preparate per un eventuale confronto con Grillo che aveva annunciato che sarebbe salito sul palco. Siamo qua per divertirci e per distrarci dai problemi di tutti i giorni, non è questo il posto adatto per affrontare temi politici, al via la gara, dice in sostanza. Ecco, se il momento più riuscito, quello in cui Fazio ha mantenuto il controllo della situazione per tutto il tempo (e quello che ha lasciato più dubbi irrisolti: come hanno potuto due disoccupati permettersi il biglietto del Festivàl? come hanno fatto a salire sui tralicci senza che nessuno se ne accorgesse? la security è stata pagata? c’era la security?), è l’unico improvvisato, forse c’è qualcosa che non va nel Festivàl. O forse c’è qualcosa che non va nel mio gusto personale, visti i risultati d’ascolto.

Perché, il resto del Festivàl, la parte scritta, sa di un déjà vu disarmante.

A partire da quel «Sanremo e Sanromolo» d’apertura in cui Pif ripropone il format de “Il testimone” versione Sanremo (la prima edizione de “Il testimone” è del 2007 e c’è stata anche una versione al cinema), passando per Ligabue che celebra un cantante morto quindici anni fa con una canzone di trent’anni prima, arrivando a Raffaella Carrà, una signora di settant’anni, che canta e balla – senza avere nulla da invidiare alle ventenni che la circondano, tra l’altro – il suo successo del 1983. Senza tralasciare Yusuf Islam – che viene chiamato “Yusuf Cat Stevens”, anche se ha adottato il nuovo nome dal 1977 – che commuove la platea e fa alzare tutti in piedi con una canzone sua del 1970 e, prima, con una canzone non sua del 1967 (o era forse un modo del Festivàl di ricordare Castagna?). Ma, soprattutto, c’è stato quel momento imbarazzante e infinito con Laetitia Casta. Quello in cui si sono giocate tutte le carte giocabili: il primo incontro dopo anni, l’occasione sprecata di chissà quale amore romantico, la dichiarazione, la sostituzione a sorpresa di Casta con Littizzetto, Casta che canta in italiano, Fazio in francese, Fazio con lupetto nero da esistenzialista, Fazio con l’impermeabile, Fazio che canta canzoni stracciamaroni francesi, Casta che ribatte con un “ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai?”. No, ma parliamone. Parliamo di come ci sia stato un gruppo d’autori che sia seduto a tavolino e abbia detto: «Bene, abbiamo un ospite francese, facciamo un po’ il punto di tutti i cliché sulla Francia che ci vengono in mente e poi facciamola cantare ché a Sanremo si viene per cantare». Che è esattamente quello che fa Barbara d’Urso ogni pomeriggio. Quando ha dovuto intervistare il belloccio de “Il segreto” si è armata di rosa rigorosamente rossa tra i capelli, di ventaglio, di un abito rosso e nero da ballerina di flamenco, e di “esse” alla fine delle parole e via a chiedere al tizio in questione qualche dettaglio della sua vita sessuale. E, allora, magari uno (io) si aspetterebbe di vedere qualcosa di diverso al Festivàl. Attesa delusa.

Infine ci sono state anche quattordici canzoni in gara presentate da sette cantanti che si sono inseriti nel contesto sanremese adattandosi perfettamente, ognuno portando la copia di se stesso. C’è Arisa che canta di un amore finito male e perde qualche nota, c’è Frankie Hi-Nrg che, passati i quaranta, continua ancora a fare il quindicenne tutto maglietta e reggaeton, ma la pancia lo tradisce, c’è Ruggiero che dà fiato alla lirica, c’è Gualazzi al piano e il coro gospel di “Like a Prayer” alle sue spalle, c’è De André (figlio) con un ritornello in genovese, ci sono i Perturbazione che cantano le uniche due canzoni decenti della serata e quella che non passa è la mia preferita (sì, anch’io sono un cliché vivente, tanto piacere) e c’è l’ennesima versione di Giusy Ferreri che non ha ancora trovato la sua strada. Non ti preoccupare, Giusy, capita.

Ci sono delle crepe nei muri, delle pareti da tinteggiare, delle tegole da cambiare, le grondaie da pulire, la siepe da rinfittire… C’è da nominare un restauratore che si occupi di questi lavoretti di manutenzione e c’è una fetta, una grossa fetta, dell’assemblea che ha già deciso di appoggiare un tizio abbastanza giovane da proporre idee innovative rispetto alla concorrenza – cosa piuttosto facile considerando l’incapacità della concorrenza di aggiornasi – ma non proprio di primo pelo, il ragazzo insomma ha esperienza nel settore e vuole proporre una strada nuova, alternativa.

Ha parlato con la signora del terzo piano e l’ha convinta che ha ragione, il problema è lo sterco dei piccioni che corrode le tegole e poi piove in casa.

Ha parlato con il ragazzo del secondo piano e gli ha detto che ha ragione, ha tutti i diritti a fare festa con i suoi amici, i vicini hanno poco da lamentarsi.
«Si potrebbe risolvere il problema in cinque minuti insonorizzando l’appartamento»
«Davvero è possibile? In tutto questo tempo che abito in quel condominio non mi era mai stato detto!»
«Certo che è possibile, basta volerlo!»

Ha parlato con il signore del primo piano e gli ha detto che ha ragione, il rispetto passa per le piccole cose e gli altri condomini non possono lasciare le loro macchine davanti al suo garage, anche se lui non ha la patente, non significa che gli altri possano fare i loro comodi senza il suo consenso.

Poi c’è un’altra fetta, decisamente più piccola, quasi irrisoria, che si guarda sbalordita intorno.
«Ma come potete credere a quello che vi dice? – si chiede – Non vedete che dice a ognuno di voi quello che volete sentirvi dire? Non vedete che dietro a quelle promesse di rinnovamento ci sono le stesse tecniche utilizzate dalla concorrenza in tutti questi anni?»
Ma, niente, si arriva al momento della votazione e il restauratore in questione vince a mani basse. I lavori andranno assegnati a lui.

Giubilo generale.

«Finalmente il nostro condominio verrà modernizzato! Non avrà nulla da invidiare a quelli stranieri!»
«Da domani verrà premiato il talento e i lavori non verranno più fatti dalla “Baraldi & figli” solo perché sono gli zii di quello dell’attico!»
«Il nuovo restauratore è giovane e c’è bisogno di giovani alla guida dei lavori!»

Poi c’è sempre quella fettina che era contraria che continua a dire, «State attenti, non perdetevi dietro a questo facile entusiasmo, il fatto che sia giovane non vuol dire nulla di per sé e…» E, niente, la fetta grossa non vuole sentire ragioni, il restauratore è l’unica alternativa per recuperare il condominio, per renderlo competitivo sul mercato, per trasformarlo in un posto migliore in cui vivere. La fetta piccola è solo gelosa che non è passato il loro candidato, uno che usa internet per farsi pubblicità e internet, si sa, non è conosciuta da tutti, le persone serie si fanno pubblicità in tv, e se avanza del tempo, anche su internet. La fetta piccola è disfattista, non le va mai bene niente, per una volta che c’è uno che ci prova a cambiare qualcosa in quel condominio barcollante…

C’è un solo problema.

I lavori non possono essere assegnati immediatamente al nuovo restauratore perché il contratto con il vecchio non è ancora scaduto.

Che fare?

Niente, sembra che sia necessario aspettare la naturale scadenza del contratto.

Solo che poi accadono una serie di coincidenze, un soffio di vento in più, Giove in trigono con Saturno, le nutrie che scavano una tana di troppo, il cane dei vicini che abbaia al nuovo postino, e si materializza la concreta possibilità di recedere dal contratto col vecchio restauratore così, all’improvviso e senza penali, e che quello nuovo possa finalmente prendere in mano la situazione.

A quel punto, una parte di chi aveva sostenuto il nuovo restauratore comincia a dire, «Ma no, guardate, lui è una persona a modo, non se ne approfitterebbe mai della situazione per prendere il posto di quello vecchio così, lui preferisce seguire una via più corretta e quando sarà il suo turno – perché legittimato dal nostro voto – farà grandi cose. E poi entrambi i restauratori vengono dalla stessa scuola, perché dovrebbero farsi la guerra?» E la fetta piccola prova ancora a dire che «Ve l’abbiamo spiegato, quello parla di rinnovamento ma nella pratica è molto vicino agli stessi che critica» ma, niente da fare, ormai il nuovo restauratore è diventato come un messia e chi ci prova a dire che «Di messia ce n’era uno ed è finito in croce, forse dovremmo concentrarci su cosa fare, non su chi dovrebbe farlo» continua ad essere bollato come disfattista. E poi, oh, poi arriva il giorno.

Il giorno in cui il nuovo ha l’occasione di prendere il posto del vecchio anzitempo.

E il nuovo, oh, il nuovo la coglie.

Il condominio ha un nuovo restauratore.

A quel punto la fetta grossa inizia un po’ a vacillare.

Una parte rimane delusa e prende le distanze dal nuovo restauratore, dice che si è fidata ed è stata ripagata con i soliti mezzucci che venivano proprio da chi prometteva di seguire una nuova strada. Un’altra parte dice che va bene così, l’importante è che il nuovo restauratore lavori sereno e che faccia le modifiche concordate e poi i miracoli possono sempre capitare. Un’altra si mette ad attaccare la fetta piccola, «Il fatto che siete delle cassandre dimostra la vostra inutilità, avevate il dovere morale di convincerci che il nuovo restauratore fosse la scelta sbagliata».

E la fetta piccola che fa?

La fetta piccola è lì che si picchia in testa, gongola tra un “te l’avevo detto!” sussurrato e un “ma non potevate pensarci prima?” detto un po’ più ad alta voce e non può fare altro che sperare di aver preso una cantonata e che il restauratore faccia anche del loro condominio un posto meraviglioso, pieno di magici unicorni che cagano arcobaleni.

Nella scena più famosa di “Pulp Fiction” Tarantino mette in un ristorante a tema anni 50, circondato da memorabilia dell’epoca, tra tavoli a forma di Chrysler e una sosia di Marilyn, Travolta che partecipa ad una gara di twist con Uma Thurman. John Travolta, 1954, attore e ballerino ne “La febbre del sabato sera” (1977, John Badham) e soprattutto in “Grease”, film di straordinario successo dell’anno successivo, diretto da Randal Kleiser, tratto da un musical di altrettanto successo, ambientato nella California del ’59. Tarantino prende un locale che celebra gli anni 50 e tra una reliquia e l’altra v’inserisce una reliquia vivente che fa esattamente quello che ti aspetti da lui: balla. O meglio: cerca di muovere il corpo a ritmo con la musica del locale. Perché quello che sta ballando non è né Tony Manero né Danny Zuko, quei due sono destinati a rimanere eterni ragazzini, Vincent Vega al contrario è un quarantenne con la pancetta e dei capelli ridicolmente lunghi, è uno che non ha concluso molto dalla vita, uno che deve fare da baby sitter alla moglie del capo ed accontentare ogni sua sciocchezza, compresa quella di vincere una stupida gara di ballo.

Ne “La grande bellezza” Sorrentino fa qualcosa di simile. Nella scena della festa iniziale c’è Serena Grandi che interpreta Lorena.

«Chi?»
«Lorena. Ex soubrette televisiva, adesso in completo disfacimento psico-fisico.»

Serena Grandi, 1958, ebbe un enorme successo negli anni 80, la prima maggiorata del cinema italiano, celebrata persino nella sigla di “Superclassifica Show” dal Supertelegattone («Quando c’è Serena Grandi / do la linea a Seymandi»). Di nuovo, Grandi non è più quell’attrice degli anni 80, non è Miranda, non è Teresa, è una donna di mezz’età che esce da una torta a forma di Colosseo, vestita di piume troppo attillate, con la faccia tirata e le labbra a canotto. La parodia di sé stessa.

«E ora che fa?»
«Niente, che deve fa’?».

L’autoparodia ritorna in altri momenti del film. Con Ramona, per esempio. Ramona/Sabrina Ferilli si esibisce in uno spogliarello, dodici anni dopo lo spogliarello per lo scudetto della Roma e cinque anni dopo aver interpretato una spogliarellista in tv nella serie “Anna e i cinque”.

Come dire, passano gli anni ma siamo destinati a fare sempre le stesse cose, anche quando l’età non ce lo permetterebbe più, perché è quello che siamo, quello che ci definisce. Sappiamo fare quello, il pubblico ci riconosce per quello e quello facciamo.

O forse sono solo voli pindarici e poi a Tarantino tocca mettersi lì e spiegare a noi povere capre che lui non ha messo Travolta in quella scena apposta per farlo ballare, la scena era stata scritta prima di assegnargli il ruolo di Vincent e s’ispirava a Godard.

Il problema non è la mancanza di qualsiasi dote attoriale dei protagonisti ché, se il mondo si fermasse ogniqualvota che Tizio ricevesse una retribuzione in cambio di un lavoro per il quale non ha la minima competenza, saremmo in costante apnea.

Il problema non è che in Italia la fiction è recitata da chi non ha uno straccio di preparazione. In Italia ci sono le miss o le aspiranti miss, i grandi fratelli, i villaggi turistici, i fratelli di chi ha fatto i villaggi turistici, i tronisti, le modelle, gli ospiti delle trasmissioni tivvù, quelli che fanno gli spot, tutto, tranne gli studenti delle scuole di recitazione da cui partire.

Il problema non sono gli attori che non sanno recitare e che quando ci provano ad andare all’estero vengono fatti morire dopo cinque puntate e poi hai voglia di dire che se vuoi avere successo in America devi andare ai party tutte le sere e tu invece sei uno che mette la moglie e i tre figli prima di tutto.

Il problema non è che per ogni illuminato pronto a dichiarare l’ovvio – le fiction italiane sono brutte – ce ne siano almeno dieci pronti a scandalizzarsi e a dire che no, anche nella fiction italiana ci sono delle eccellenze. Sì, in genere laddove non ci lavori tu.

Il problema non è la pigrizia degli sceneggiatori che continuano a produrre personaggi buoni buoni vs personaggi cattivi cattivi perché provare a scrivere un eroe con qualche sfaccettatura richiederebbe troppo sforzo da parte loro e ci sarebbe pure il rischio che il pubblico non lo capisca, come se in Italia non fossero mai arrivate, chessò, le dodici stagioni di “NYPD – New York Police Department”, vent’anni fa.

Il problema non è la banalità della trama, che sia facile facile, che riproduca sempre le stesse situazioni, sempre quel VERO Amore contrastato dal signorotto di turno ma che alla fine riesce sempre a trovare la strada per sbocciare. O la mancanza di una ricerca storiografica adeguata, i costumi e le scene rattoppate, tanto quello che conta sono le Emozioni.

Il problema non è l’esilità della trama che il più delle volte serve solo a fini politici. Vuoi capire perché Berlusconi, dato per sconfitto in partenza alle ultime elezioni, sia riuscito ad ottenere il consenso di un quarto dell’elettorato italiano? Non esiste nessun editoriale di Cazzullo, nessuna analisi di Santoro, nessuna intervista di Gruber che te lo possa spiegare bene come una fiction con Manuela Arcuri. È tutto lì dentro. Da quei cattivoni dei magistrati che hanno il coraggio di sottrare il figlio ad una madre, alle prostitute che smettono di essere tali e diventano delle madri coraggio pronte a tutto – leggi: a battere, ma non si deve mai dirlo ad alta voce – pur di mantenere il figlio e tutte sono orgogliose delle proprie scelte di vita.

Il problema non sono le nove stagioni di “Don Matteo”, le sette di “Carabinieri”, le tre de “Il bello delle donne”, che, se sono andate avanti per tanto tempo, è perché c’era qualcuno che se le guardava, ma che se tu, o direttore di rete, mi proponi solo quelle, io che minchia dovrei guardare la sera?

Il problema non sono i registi senza idee, i produttori che non osano, i direttori della fotografia che si grattano la testa (cosa c’entrano le foto con una fiction?).

Il problema è che in Italia esistano dei cosiddetti movimenti dei genitori che decidano di querelare un canale televisivo perché all’interno di una fiction c’è un bambino che recita il ruolo di un (aspirante) omicida che, in quanto tale, tenta di uccidere il fratello. Non solo: non riuscendoci la prima volta, ci prova addirittura una seconda. Comportamento davvero insolito per un (aspirante) omicida. Non si fanno queste cose, signora mia. Non si racconta della gelosia tra fratelli. Non si racconta degli istinti omicidi di un minore. Non si racconta dei familiari che non si vogliono bene. Non si fa, no. Altrimenti il rischio di emulazione è altissimo, soprattutto tra i bambini impressionabili che si sono sintonizzati sulla fiction con Garko e Arcuri. Avete letto i giornali nelle ultime quarantott’ore, no? Avete letto di quanti bambini hanno preso a colpi di ferro da stiro il fratello? O di quanti hanno dato fuoco alla culla del fratello dopo aver visto “Il peccato e la vergogna 2” martedì sera? Ormai è diventata una piaga sociale. E come non ricordare quella generazione di bambini che abbiamo perso dalle schiere dell’eterosessualità dopo che si era immedesimata nei panni di Sailor Moon? Tempi bui per la società moderna.

Il problema è il provincialismo a cui queste sedicenti associazioni di genitori ci condannano.

Provaci tu a raccontare loro di Sally Draper che, a dieci anni, viene beccata dalla madre a masturbarsi di fronte al televisore (facciamo ciao ciao con la manina alla signora ironia).

O di Shane Botwin che, a quindici anni, uccide una donna con una mazza da cricket.

O della diciassettenne Cassie Ainsworth che spiega all’amico Sid come riesca a non mangiare niente pur facendo credere a chiunque di avere un appettito da leoni.

O del teenager Roman Godfrey che usa i suoi superpoteri per violentare le coetanee e per cancellare i ricordi della violenza.

Provaci tu a raccontare di questi minorenni creati dalla e per la televisione alle associazioni di genitori e poi invitale ad usarli come monito con i loro bambini – “Se guardi “Skins” diventerai anoressica!” – e poi dimmi quanti di questi bambini sono riusciti a non scoppiare a ridere in faccia a quelli del Moige.

Sono così indie che il blog è fuori moda (fuori moda!)

L’anno scorso sulla mia timeline di Twitter era stato più volte condiviso un post composto da cinque canzoni, una per stagione, dell’anno che stava per terminare. “Bella idea”, ricordo d’aver pensato. Poi, siccome sono un cialtrone, non solo non ho scritto un post simile dodici mesi fa, ma non mi sono neanche segnato il link del blog in questione. Lo faccio oggi, quando qui è tornata a scendere la neve (in automatico, giuro!), senza link e chiedo scusa.

Si diceva, quindi, una canzone per stagione, quella che ho ascoltato di più in quel periodo dell’anno ma anche quella a cui sono rimasto più legato per cazzi e mazzi vari. Quasi tutte sono del 2013, una del 2012, una è uscita nel 2012 ma qui ho scelto la versione del 2013, ben tre italiane (due no), ma tanto alla fine è tutta una scusa per aggiornare il blog per la seconda volta quest’anno e per augurare buone feste a tutti.

Inverno.

Primavera.

Estate.

Autunno.

Inverno.

Io non sono un esperto di comunicazione e non mi occupo di beneficenza, ma posso dire da spettatore che questo video è lontano dall’ottenere lo scopo che si prefigge, ovvero farmi invogliare a mandare un sms per il Progetto Donna della Lila. Ma guardiamolo.

C’è una ragazza che sta lavorando alla scrivania sul suo portatile, mentre la voce fuori campo della stessa ragazza ce la presenta. Il comunicato dice che la ragazza sta scrivendo “al Corriere della Sera dopo essersi scoperta sieropositiva, denunciando la mancanza di informazione per le nuove generazioni”, ma vi sfido a dedurre questi particolari dalla sola visione dello spot. La voce è molto seria. Ci dice che la ragazza si chiama Chiara, ha vent’anni. E già su questo avrei da ridire, visto che la nostra dimostra visibilmente molti anni di più. Ma andiamo avanti. Le altre informazioni che Chiara dà di sé ne vogliono sottolineare la serietà: studia, frequenta un gruppo di amici, probabilmente lo stesso dai tempi dell’oratorio, ha avuto un solo ragazzo. Stacco dal primo piano di Chiara al desktop del pc in cui campeggia una foto di Chiara con un ragazzo, sicuramente quel ragazzo e subito viene da chiedersi se i due stiano ancora insieme o se lui sia morto e Chiara lo ricorda ogni volta che accende il computer, visto che subito dopo la ragazza c’informa che lui “non sapeva di avere l’AIDS” e che ora è sieropositiva anche lei. “Ho paura di non farcela”, dice la voce di Chiara mentre la ragazza guarda in macchina. Stacco su Elena Di Cioccio che ci spiega l’iniziativa della Lila. La Lila sta aiutando Chiara ed altre ragazze nella sua situazione, ma ha bisogno di fondi, aiutala mandando un sms, “fallo per tua figlia”. Ed è qua che si capisce a chi è rivolta la campagna. Perché, se il Progetto Donna vuole essere un modo per porre l’attenzione sul fatto che la categoria delle donne eterosessuali sia quella più esposta alla contrazione del virus dell’HIV, lo spot con Di Cioccio come testimonial vuole invogliare i padri e la madri di famiglia a dare un contributo economico alla causa. Per creare empatia tra i padri di famiglia e le donne sieropositive si decide di rappresentare quest’ultime come giovani, con la testa sulle spalle, non più vergini perché non sarebbero credibili ma con una vita sessuale limitata ad un partner: hanno commesso un errore nella loro vita, non condanniamole per questo. Non hanno deciso di ammalarsi, non hanno scambiato siringhe con altri drogati (sempre che l’eroina in vena vada ancora di moda), non si sono prostituite in tangenziale o, peggio, non sono passate consapevolmente da un ragazzo all’altro, magari da una notte all’altra, magari anche divertendosi nel farlo. Sono le figlie di qualcuno, per questo sono responsabili, serie, monogame.

Nella pagina di presentazione del Progetto Donna la Lila scrive che hanno scelto volutamente di rappresentare Chiara con questi toni seri e disperati, in apparente contrasto con le campagne precedenti nelle quali comparivano “donne di tutte le età che esibivano felici il preservativo, puntando sul messaggio positivo di una sessualità femminile soddisfacente e consapevole”. Chiara, invece, è seria perché si vuole “ribadire che anche se la maggioranza di noi è felice e ha vite soddisfacenti il percorso che rende questo possibile non è certo una passeggiata. Abbiamo ripensato ai primi giorni, a quando ci è stato consegnato l’esito di un test positivo”.

Io non sono un esperto di comunicazione e non mi occupo di beneficenza, dicevo all’inizio. Se avessi dovuto preparare uno spot per questo progetto, da incompetente, sarei partito da Chiara, l’avrei mostrata all’università intenta a passare brillantemente un esame, poi l’avremmo vista insieme ad alcuni amici, magari mentre sorseggiavano un aperitivo, poi col suo ragazzo – perché no? – a letto. Dopo di che saremmo passati ad un’altra ragazza, a Giulia. Avremmo visto Giulia al lavoro, impegnata in una presentazione in ufficio, poi sarebbe stata in un campo di pallavolo ad allenarsi, infine al cinema con il suo ragazzo, li vedi? Sono quei due che si stanno baciando. Ci sarebbe stata anche una terza ragazza, Francesca. Francesca sta correndo con la figlia verso l’ingresso dell’asilo. Francesca è in un’aula di tribunale a difendere un cliente. Francesca è sul divano con la figlia e il marito a guardare Peppa Pig in tv. Stacco. Elena Di Cioccio ci fa sapere che Chiara, Giulia e Francesca sono tre giovani donne come tante, ma che una delle tre è sieropositiva, saresti in grado di dire quale? No, vero? E sai perché? Perché è grazie ad iniziative come il Progetto Donna che la Lila riesce a dare il proprio supporto a donne sieropositive, a stare loro accanto nella quotidianità, a permettere loro di vivere una vita appagante e soddisfacente, anche da malate. Ma per continuare a farlo, la Lila ha bisogno del tuo supporto.

Invia un sms al 45505 o chiama da rete fissa.

Ma cosa ne voglio sapere io?